TRIBUNALE ORDINARIO DI CUNEO 
 
    Il Giudice  del  lavoro,  nella  persona  della  dott.ssa  Silvia
Casarino, a scioglimento della riserva  assunta  all'udienza  del  15
novembre 2016, ha  pronunciato  la  seguente  ordinanza  nella  causa
iscritta al n. 629/2016  R.G.  Lav.  promossa  da  Dadone  Luciano  e
Proietti Ricci Benito - avv. Romina Giraudo, ricorrenti; 
    contro I.N.P.S. - Istituto nazionale della previdenza  sociale  -
avv. Marina Cappiello, convenuto. 
    I signori Dadone Luciano e Proietti Ricci Benito hanno evocato in
giudizio l'I.N.P.S., esponendo di essere titolari di pensioni per  un
importo complessivo di  oltre  euro  1.405,05  lorde  (euro  1.217,00
netti) nel 2012, e di avere quindi subito, dal 1°  gennaio  2012,  il
blocco  della  perequazione  per  gli  anni  2012/2013  per   effetto
dell'art. 24, comma  25,  decreto-legge  6  dicembre  2011,  n.  201,
convertito  in  legge  22   dicembre   2011,   n.   214,   dichiarato
incostituzionale con sentenza 30 aprile  2015,  n.  70,  e  deducendo
l'incostituzionalita', sotto vari profili, dell'art. 1, decreto-legge
21 maggio 2015, n. 65, convertito in legge 17 luglio  2015,  n.  109,
emanato dopo detta sentenza di incostituzionalita'. 
    Piu' precisamente, il ricorrente Dadone, alla data  del  novembre
2011, percepiva una pensione lorda pari a  euro  2.329,60,  e  quindi
superiore a 4 volte la pensione minima INPS ed inferiore a 5 volte la
pensione minima INPS, mentre il ricorrente PROIETTI  RICCI  percepiva
una pensione lorda pari a euro 1.801,32, e quindi superiore a 3 volte
la pensione minima INPS ed inferiore a 4  volte  la  pensione  minima
INPS. 
    A  seguito  della  pronuncia  della  Corte   costituzionale,   il
ricorrente Dadone avrebbe avuto diritto  a  percepire,  a  titolo  di
perequazione  della  pensione  negli  anni  2012  e  2013,  l'importo
complessivo di euro 129,26 mensili (euro 60,40 mensili  nel  2012  ed
euro 68,86 nel 2013), mentre, con il decreto-legge n. 65/15 l'importo
percepito a tale titolo mensilmente e' pari a euro 12,58  per  l'anno
2012 ed euro 14,05 per l'anno  2013;  il  ricorrente  Proietti  Ricci
avrebbe avuto diritto a percepire, a  titolo  di  perequazione  della
pensione, l'importo di euro 101,81 mensili (euro  47,57  mensili  nel
2012 ed euro 54,25 mensili nel 2013), mentre, con il decreto-legge n.
65/15 l'importo percepito a tale titolo mensilmente e'  pari  a  euro
19,45 nel 2012 e a euro  21,85  nel  2013.  A  titolo  di  arretrati,
spettavano, a seguito della declaratoria  di  incostituzionalita',  a
Dadone la somma complessiva di euro 2.465,64 (euro 785,24 per il 2012
ed euro 1.680,41 per il 2013), mentre gli e' stata pagata la somma di
euro 509,77; a Proietti ricci la somma complessiva di  euro  1.941,92
(euro 618,35 nel 2012 ed euro 1.323,58 nel 2013), mentre gli e' stata
pagata la somma di euro  789,84  (v.  conteggi  sub  docc.  6A  e  6B
ricorrente). 
    Detti importi possono ritenersi pacifici in mancanza di specifica
contestazione dell'Istituto convenuto in merito alla loro correttezza
sotto il profilo contabile. I ricorrenti chiedono quindi (per  quanto
rileva  ai  fini  della  questione  di  legittimita'   costituzionale
sollevata con la presente  ordinanza,  dovendo  l'esame  delle  altre
questioni di  incostituzionalita'  sollevate  dalla  difesa  attorea,
relative, in particolare, all'art.  1,  comma  483,  legge  147/2013,
essere rimesso al momento della  pronuncia  della  sentenza),  previa
rimessione degli atti alla Corte costituzionale, di accertare il loro
diritto   alla   perequazione   automatica   dei   loro   trattamenti
pensionistici per gli anni 2012 e  2013  secondo  la  sentenza  della
Corte costituzionale n. 70/15, e comunque in base  al  meccanismo  di
cui all'art. 69, comma 1, legge 23 dicembre 2000, n. 388, senza tener
conto  dei  limiti  di  cui  al  decreto-legge  n.  65/15,  e  dunque
dichiarare tenuto e condannare l'INPS a pagare loro,  per  il  blocco
2012/2013,  l'aumento  mensile  e  gli  arretrati   sui   trattamenti
pensionistici, oltre accessori sino al saldo. 
Rilevanza della questione. 
    Da quanto sopra scritto emerge la rilevanza  della  questione  di
costituzionalita' sollevata con il presente provvedimento. 
    A fronte della sentenza della Corte costituzionale n. 70/15,  che
ha dichiarato «l'illegittimita' costituzionale  dell'art.  24,  comma
25, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201  (Disposizioni  urgenti
per la crescita, l'equita' e il consolidamento dei  conti  pubblici),
convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della  legge  22
dicembre  2011,  n.  214,  nella  parte  in  cui  prevede   che   "In
considerazione   della   contingente   situazione   finanziaria,   la
rivalutazione automatica dei trattamenti  pensionistici,  secondo  il
meccanismo stabilito dall'art. 34, comma 1, della legge  23  dicembre
1998,  n.  448,  e'  riconosciuta,  per  gli  anni   2012   e   2013,
esclusivamente ai trattamenti pensionistici  di  importo  complessivo
fino a tre volte il trattamento minimo INPS, nella misura del 100 per
cento"», e' stato emanato il decreto-legge n. 65/15, il  cui  art.  1
prevede: 
    «1. Al fine  di  dare  attuazione  ai  principi  enunciati  nella
sentenza della Corte costituzionale n. 70 del 2015, nel rispetto  del
principio dell'equilibrio di bilancio e degli  obiettivi  di  finanza
pubblica,  assicurando  la  tutela  dei  livelli   essenziali   delle
prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, anche in funzione
della salvaguardia della solidarieta' intergenerazionale, all'art. 24
del  decreto-legge  6  dicembre  2011,  n.   201,   convertito,   con
modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214,  sono  apportate
le seguenti modificazioni: 
        1) il comma 25 e' sostituito dal seguente: 
    25. La rivalutazione automatica  dei  trattamenti  pensionistici,
secondo il meccanismo stabilito dall'art. 34, comma 1, della legge 23
dicembre  1998,  n.  448,  relativa  agli  anni  2012  e   2013,   e'
riconosciuta: 
        a)  nella  misura  del  100  per  cento  per  i   trattamenti
pensionistici di importo complessivo fino a tre volte il  trattamento
minimo INPS. Per le pensioni di importo  superiore  a  tre  volte  il
trattamento minimo INPS e inferiore a tale limite incrementato  della
quota di rivalutazione automatica  spettante  sulla  base  di  quanto
previsto  dalla  presente  lettera,  l'aumento  di  rivalutazione  e'
comunque  attribuito  fino  a   concorrenza   del   predetto   limite
maggiorato; 
        b)  nella  misura  del  40  per  cento  per   i   trattamenti
pensionistici complessivamente superiori a tre volte  il  trattamento
minimo INPS e pari o inferiori a quattro volte il trattamento  minimo
INPS  con  riferimento  all'importo   complessivo   dei   trattamenti
medesimi. Per le pensioni di importo superiore  a  quattro  volte  il
predetto trattamento minimo e inferiore a  tale  limite  incrementato
della quota di  rivalutazione  automatica  spettante  sulla  base  di
quanto previsto dalla presente lettera, l'aumento di rivalutazione e'
comunque  attribuito  fino  a   concorrenza   del   predetto   limite
maggiorato; 
        c)  nella  misura  del  20  per  cento  per  i'   trattamenti
pensionistici  complessivamente  superiori   a   quattro   volte   il
trattamento minimo  INPS  e  pari  o  inferiori  a  cinque  volte  il
trattamento minimo INPS con riferimento all'importo  complessivo  dei
trattamenti medesimi. Per le pensioni di importo superiore  a  cinque
volte il predetto  trattamento  minimo  e  inferiore  a  tale  limite
incrementato della quota di rivalutazione automatica spettante  sulla
base  di  quanto  previsto  dalla  presente  lettera,  l'aumento   di
rivalutazione e' comunque attribuito fino a concorrenza del  predetto
limite maggiorato; 
        d)  nella  misura  del  10  per  cento  per   i   trattamenti
pensionistici  complessivamente   superiori   a   cinque   volte   il
trattamento minimo INPS e pari o inferiori a sei volte il trattamento
minimo INPS con riferimento all'importo complessivo  dei  trattamenti
medesimi. Per le  pensioni  di  importo  superiore  a  sei  volte  il
predetto trattamento minimo e inferiore a  tale  limite  incrementato
della quota di  rivalutazione  automatica  spettante  sulla  base  di
quanto previsto dalla presente lettera, l'aumento di rivalutazione e'
comunque  attribuito  fino  a   concorrenza   del   predetto   limite
maggiorato; 
        e)  non  e'  riconosciuta  per  i  trattamenti  pensionistici
complessivamente superiori a sei volte il trattamento minimo INPS con
riferimento all'importo complessivo dei trattamenti medesimi. 
        2) dopo il comma 25 sono inseriti i seguenti: 
    25-bis.   La    rivalutazione    automatica    dei    trattamenti
pensionistici, secondo il meccanismo stabilito dall'art. 34, comma 1,
della legge 23 dicembre 1998, n. 448, relativa agli anni 2012 e  2013
come  determinata  dal  comma  25,  con   riguardo   ai   trattamenti
pensionistici  di  importo  complessivo  superiore  a  tre  volte  il
trattamento minimo INPS e' riconosciuta: 
        a) negli anni 2014 e 2015 nella misura del 20 per cento; 
        b) a  decorrere  dall'anno  2016  nella  misura  del  50  per
cento.». 
    Pertanto,  in  applicazione  di'  detto  decreto-legge,  anziche'
vedersi ripristinare la perequazione e  pagare  gli  arretrati  (come
sarebbe avvenuto in forza della sentenza della Corte  costituzionale)
i ricorrenti hanno ottenuto una perequazione - e relativi arretrati -
in misura notevolmente inferiore, come sopra scritto. 
    Alla  luce  dell'attuale  normativa  le   domande   attoree   non
potrebbero quindi  che  essere  rigettate,  mentre  dall'accoglimento
della questione di  illegittimita'  costituzionale  conseguirebbe  il
diritto alla perequazione  della  pensione  secondo  i  criteri  gia'
stabiliti. 
Sulla non manifesta infondatezza. 
    1. Violazione del giudicato costituzionale. 
    Non appare manifestamente infondata la questione di  legittimita'
costituzionale per violazione  dell'art.  136  Cost.,  ai  sensi  del
quale, quando la Corte dichiara  l'illegittimita'  costituzionale  di
una norma di legge,  questa  cessa  di  avere  efficacia  dal  giorno
successivo alla pubblicazione della decisione. 
    Invero, il decreto-legge n. 65/2015, nel sostituire il testo  del
decreto-legge N. 201/2011 convertito in legge n. 214/2011, dichiarato
incostituzionale   con   sentenza   70/2015   della   Consulta,    ha
sostanzialmente  aggirato  le  statuizioni  di  detta   declaratoria,
impedendo la  portata  retroattiva  insista  nella  dichiarazione  di
incostituzionalita'. 
    Ebbene, la giurisprudenza della Corte costituzionale ha  ritenuto
in violazione dell'art. 136 Cost.  gli  interventi  legislativi  che,
dopo pronunce declaratorie di incostituzionalita', abbiano  avuto  il
sostanziale effetto di «prolungare la vita»  della  norma  dichiarata
incostituzionale,  in  tal  modo  ripristinando   l'efficacia   delle
disposizioni ormai caducate e dunque  gli  effetti  che  erano  stati
rimossi per effetto della declaratoria di incostituzionalita',  cfr.,
recentemente, Corte costituzionale 24 giugno 2015,  n.  169,  che  ha
evidenziato come la norma contenuta nell'art. 136 Cost. debba  essere
intesa in senso rigoroso, poiche'  su  di  essa  «  (...)  poggia  il
contenuto pratico di tutto il sistema delle garanzie  costituzionali,
in quanto  essa  toglie  immediatamente  ogni  efficacia  alla  norma
illegittima senza possibilita' di compressioni od  incrinature  nella
sua rigida applicazione». La Consulta ha osservato -  richiamando  al
riguardo precedenti declaratorie di incostituzionalita' - che  l'art.
136 Cost. sarebbe  violato  non  soltanto  laddove  espressamente  si
disponesse che una  norma  dichiarata  illegittima  conservi  la  sua
efficacia, ma anche nel caso in cui una legge, per il  modo  con  cui
provvede a regolare  le  fattispecie  verificatesi  prima  della  sua
entrata   in   vigore,   perseguisse   e   raggiungesse,   anche   se
indirettamente, lo stesso risultato, rilevando  ancora:  «Se  appare,
infatti, evidente che una pronuncia di illegittimita'  costituzionale
non possa, in linea  di  principio,  determinare,  a  svantaggio  del
legislatore, effetti corrispondenti a quelli di un «esproprio»  della
potesta'  legislativa  sul  punto  -  tenuto  anche  conto  che   una
declaratoria di illegittimita'  ha  contenuto,  oggetto  e  occasione
circoscritti dal «tema» normativo devoluto e dal «contesto» in cui la
pronuncia demolitoria  e'  chiamata  ad  iscriversi  -  e'  del  pari
evidente,  tuttavia,  che  questa  non  possa  risultare  pronunciata
«inutilmente», come accadrebbe quando una accertata violazione  della
Costituzione  potesse,  in  una   qualsiasi   forma,   inopinatamente
riproporsi. E se, percio', certamente il legislatore  resta  titolare
del potere di disciplinare, con un nuovo atto, la stessa materia,  e'
senz'altro  da  escludere  che  possa  legittimamente  farlo  -  come
avvenuto nella specie - limitandosi a «salvare», e cioe' a «mantenere
in vita», o a ripristinare gli effetti prodotti da disposizioni  che,
in ragione della dichiarazione di illegittimita' costituzionale,  non
sono piu' in grado di produrne. Il contrasto con l'art. 136 Cost. ha,
in un simile frangente, portata addirittura letterale. 
    In altri termini: nel mutato contesto di  esperienza  determinato
da una pronuncia caducatoria, un conto sarebbe riproporre, per quanto
discutibilmente, con un nuovo provvedimento, anche la stessa volonta'
normativa censurata dalla Corte; un altro conto e' emanare  un  nuovo
atto diretto esclusivamente a prolungare  nel  tempo,  anche  in  via
indiretta, l'efficacia di norme che «non possono  avere  applicazione
dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione»  (art.  30,
terzo comma,  della  legge  11  marzo  1953,  n.  87  -  Norme  sulla
costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale)». 
    L'elusione del giudicato costituzionale e' massimamente  evidente
per i pensionati titolari di un trattamento pensionistico che  supera
sei  volte  il  trattamento  minimo:  per  costoro,  l'esclusione  di
qualsivoglia meccanismo di perequazione della pensione per  gli  anni
2012-2013, che operava prima della sentenza n.  70/2015  della  Corte
costituzionale,   e'   rimasta   anche   dopo   l'introduzione    del
decreto-legge n. 65/2015 e a causa di detto provvedimento normativo. 
    Ma la violazione dell'art.  136  Cost.  sussiste,  a  parere  del
giudice, anche con riferimento alle posizioni di coloro che (come gli
odierni ricorrenti) siano titolari di trattamenti pari o inferiori  a
sei volte il minimo del trattamento INPS. 
    Invero, a fronte di una pronuncia caducatoria (v. il dispositivo,
con il quale la Corte ha dichiarato  l'illegittimita'  costituzionale
dell'art. 24, comma 25, del decreto-legge 6  dicembre  2011,  n.  201
(Disposizioni urgenti per la crescita, l'equita' e il  consolidamento
dei conti pubblici),  convertito,  con  modificazioni,  dall'art.  1,
comma 1, della legge 22 dicembre 2011, n. 214,  nella  parte  in  cui
prevede  che  «In   considerazione   della   contingente   situazione
finanziaria,   la   rivalutazione    automatica    dei    trattamenti
pensionistici, secondo il meccanismo stabilito dall'art. 34, comma 1,
della legge 23 dicembre 1998, n. 448, e' riconosciuta, per  gli  anni
2012 e 2013, esclusivamente ai trattamenti pensionistici  di  importo
complessivo fino a tre volte il trattamento minimo INPS, nella misura
del 100 per cento», l'introduzione di  una  rivalutazione  in  misure
percentuali differenziate a seconda della misura in cui  la  pensione
superi il trattamento minimo INPS, avendo l'effetto di  neutralizzare
la   portata   retroattiva   connaturata   alla    declaratoria    di
incostituzionalita', nonche',  in  rilevante  misura,  i  conseguenti
vantaggi economici, integra un  inadempimento  del  legislatore  alla
sentenza n. 70/2015. 
    La  situazione  creatasi  a  seguito  dell'intervento   normativo
successivo alla dichiarazione di incostituzionalita' e'  ben  diversa
da quella relativa al c.d.  «contributo  di  solidarieta'»  (relativo
agli  anni  2011-2014),  dichiarato  incostituzionale  con   sentenza
116/2013. Il legislatore, in questo caso, dopo  la  dichiarazione  di
incostituzionalita' della legge non reintrodusse retroattivamente  il
contributo di solidarieta', ma intervenne per il  futuro,  ossia  per
gli anni 2014/2016, senza,  pertanto,  in  alcun  modo  eliminare  il
diritto agli arretrati relativi agli anni 2011/2013. 
    La Corte costituzionale ha  quindi  in  questo  caso  escluso  la
violazione  dell'art.  136  Cost.  in  quanto:  «Il  "contributo   di
solidarieta'" ora in contestazione non colpisce, infatti, le pensioni
erogate negli anni  (2011-2012),  incise  dal  precedente  contributo
perequativo, dichiarato  costituzionalmente  illegittimo  in  ragione
della sua accertata  natura  tributaria  e  definitivamente,  quindi,
caducato (e  conseguentemente  recuperato  da  quei  pensionati)  per
effetto della sentenza di questa Corte n.  116  del  2013;  colpisce,
invece, sulla base di differenti presupposti e  finalita',  pensioni,
di elevato importo, nel successivo periodo, a partire dal 2014. 
    E tanto esclude che la disposizione sub  comma  486  dell'art.  1
della legge n. 147 del 2013 sia elusiva del giudicato  costituzionale
(rappresentato  dalla  suddetta  sentenza),   atteso   appunto,   che
l'odierna disposizione non  disciplina  le  stesse  fattispecie  gia'
regolate dal precedente art. 18, comma 22-bis, del  decreto-legge  n.
98 del 2011, ne' surrettiziamente proroga gli effetti di quella norma
dopo la sua rimozione dall'ordinamento giuridico  (vedi  sentenza  n.
245 del 2012)». 
    Al contrario, con riferimento alla perequazione  delle  pensioni,
il decreto-legge n. 201/2015 e'  intervenuto  proprio  neutralizzando
gli effetti (retroattivi) della declaratoria di incostituzionalita'. 
    2. Violazione degli articoli 3, 36 e 38 della Costituzione. 
    La   Consulta,   con   la   sentenza   70/2015,   ha   dichiarato
l'incostituzionalita'  dell'art.  24,  comma  25,  decreto-legge   n.
201/2011 illustrandone le ragioni nel punto 10 della motivazione: 
    «10.  La  censura  relativa  al  comma  25   dell'art.   24   del
decreto-legge n. 201 del 2011, se  vagliata  sotto  i  profili  della
proporzionalita' e adeguatezza del trattamento pensionistico,  induce
a ritenere che siano stati valicati  i  limiti  di  ragionevolezza  e
proporzionalita',  con  conseguente  pregiudizio  per  il  potere  di
acquisto del trattamento stesso e  con  «irrimediabile  vanificazione
delle aspettative legittimamente nutrite dal lavoratore per il  tempo
successivo alla cessazione della propria attivita'» (sentenza n.  349
del 1985). 
    Non  e'  stato  dunque  ascoltato  il   monito   indirizzato   al
legislatore con la sentenza n. 316 del 2010. 
    Si  profila  con  chiarezza,  a   questo   riguardo,   il   nesso
inscindibile che lega il dettato degli articoli 36,  primo  comma,  e
38, secondo comma, Cost. (fra le piu' recenti, sentenza  n.  208  del
2014, che richiama la sentenza n. 441 del 1993). Su questo terreno si
deve   esercitare   il   legislatore   nel   proporre   un   corretto
bilanciamento, ogniqualvolta si profili l'esigenza di un risparmio di
spesa, nel rispetto di un ineludibile vincolo di scopo  «al  fine  di
evitare  che  esso  possa  pervenire  a  valori  critici,  tali   che
potrebbero rendere inevitabile l'intervento correttivo  della  Corte»
(sentenza n. 226 del 1993). 
    La  disposizione   concernente   l'azzeramento   del   meccanismo
perequativo, contenuta nel comma 24 dell'art. 25 del decreto-legge n.
201 del 2011, come convertito, si limita a  richiamare  genericamente
la «contingente situazione finanziaria», senza che emerga dal disegno
complessivo la necessaria prevalenza delle esigenze  finanziarie  sui
diritti oggetto di bilanciamento, nei  cui  confronti  si  effettuano
interventi cosi' fortemente incisivi. Anche in  sede  di  conversione
(legge 22 dicembre 2011, n. 214),  non  e'  dato  riscontrare  alcuna
documentazione  tecnica  circa  le  attese  maggiori  entrate,   come
previsto dall'art. 17, comma 3, della legge 31 dicembre 2009, n. 196,
recante «Legge di' contabilita' e finanza pubblica» (sentenza  n.  26
del 2013, che interpreta il citato art.  17  quale  «puntualizzazione
tecnica» dell'art. 81 Cost.). 
    L'interesse dei pensionati, in particolar modo di quelli titolari
di trattamenti previdenziali modesti, e' teso alla conservazione  del
potere di acquisto delle somme  percepite,  da  cui  deriva  in  modo
consequenziale il diritto a una prestazione  previdenziale  adeguata.
Tale diritto, costituzionalmente fondato,  risulta  irragionevolmente
sacrificato nel  nome  di  esigenze  finanziarie  non  illustrate  in
dettaglio.  Risultano,  dunque,  intaccati  i  diritti   fondamentali
connessi  al  rapporto  previdenziale,  fondati   su   inequivocabili
parametri costituzionali:  la  proporzionalita'  del  trattamento  di
quiescenza, inteso  quale  retribuzione  differita  (art.  36,  primo
comma, Cost.)  e  l'adeguatezza  (art.  38,  secondo  comma,  Cost.).
Quest'ultimo e' da intendersi quale espressione certa, anche  se  non
esplicita, del principio di solidarieta' di cui all'art. 2 Cost. e al
contempo attuazione del principio di eguaglianza sostanziale  di  cui
all'art. 3, secondo comma, Cost.». 
    Secondo la Corte costituzionale, quindi, una sospensione a  tempo
indeterminato della  perequazione  o  la  reiterazione  frequente  di
misure dirette a paralizzarla esporrebbero il sistema pensionistico a
tensioni evidenti con i principi di proporzionalita' ed adeguatezza. 
    Il legislatore del 2011, secondo la Corte, non  aveva  esercitato
il corretto bilanciamento tra ragioni di spesa e tutela del potere di
acquisto del trattamento pensionistico, avendo utilizzato un generico
richiamo alla «contingente situazione finanziaria», senza  rispettare
il vincolo di scopo ineludibile del sacrificio economico  imposto  ai
pensionati. 
    Allo stesso modo, l'introduzione del nuovo  testo  dell'art.  24,
decreto-legge 201/2011, cosi' come sostituito con il decreto-legge n.
65/2015,  e'  stato  giustificato   dal   «rispetto   del   principio
dell'equilibrio di bilancio e degli obiettivi di finanza pubblica»  e
dalla «salvaguardia della solidarieta' intergenerazionale», cioe'  da
enunciazioni generiche e relative a finalita' gia' insite di per  se'
(ai sensi, rispettivamente, degli articoli 81 e  38  Cost.)  in  ogni
iniziativa legislativa adottata nella materia pensionistica. 
    Nella relazione illustrativa  al  disegno  di  legge  le  ragioni
vengono espresse ponendo come  unico  riferimento  i  maggiori  oneri
finanziari che lo Stato sopporterebbe in via decrescente tra il  2012
ed il 2016 per effetto della riattivazione del meccanismo perequativo
dell'art. 69, legge n. 388/2000 conseguente alla sentenza n.  70/2015
della Corte  costituzionale,  mentre  manca  qualsiasi  accenno  alla
ragione per cui si intende comunque riequilibrare  il  disavanzo  con
l'intervento sul sistema  pensionistico  e  sul  perche'  esso  venga
modulato con le specificita' di cui sopra si e' detto. 
    Inoltre, il testo dell'art. 24, comma  25,  cosi'  sostituito  ha
effetti distribuiti su piu' anni e destinati a diventare  permanenti,
non essendo  previsto  il  recupero  futuro  del  mancato  incremento
rivalutativo della base di calcolo dei trattamenti pensionistici. Con
un'unica  disposizione  si  e'  dunque  realizzata   di   fatto   una
reiterazione annuale della paralisi del  meccanismo  perequativo,  in
contrasto col monito piu' volte ripetuto dalla Corte costituzionale. 
    Vengono  inoltre  incise  pensioni  anche  di  valore   economico
modesto. 
    Il decreto-legge n. 65/2015 ha quindi  introdotto  uno  strumento
che eccede nell'opera di riequilibrio finanziario  rispetto  al  fine
dichiarato, senza garantire appieno la conservazione  nel  tempo  del
potere d'acquisto delle pensioni incise  e  sacrificando  percio'  in
misura  sproporzionata  la  tutela  dei  beneficiari  di  trattamenti
previdenziali   non   elevati.   Si   manifesta   in   questo    modo
l'irragionevolezza delle disposizioni contenute nei commi 25 e 25-bis
del nuovo testo dell'art. 24, decreto-legge n. 201/2011. 
    Detto intervento normativo e' ben diverso da quello  relativo  al
«contributo di solidarieta'»,  oggetto  della  gia'  citata  sentenza
della Corte costituzionale n. 173/2016. 
    Il contributo  di  solidarieta'  era  stato  introdotto,  per  il
triennio 2014-2016,  dall'art.  1,  comma  486,  legge  n.  147/2013,
operando  in   misura   crescente   sui   trattamenti   pensionistici
obbligatori superiori a 14 volte il trattamento minimo, anche al fine
di concorrere a finanziare le misure  di  salvaguardia  pensionistica
per i lavoratori definiti «esodati». 
    Esso ha quindi riguardato  le  pensioni  piu'  elevate,  peraltro
operando all'interno del sistema complessivo della previdenza. 
    Per  queste  ragioni  la  Corte  costituzionale,  con  la  citata
pronuncia,  ha  ritenuto  la  conformita'  a  Costituzione  di  detto
contributo, in particolare rispetto ai criteri  di  ragionevolezza  e
proporzionalita'. 
    Al contrario del contributo di solidarieta', misura una tantum  -
con conseguente ripristino, alla  scadenza,  dell'importo  originario
della pensione - il blocco della rivalutazione  della  pensione,  pur
limitato nel tempo, ha pero' effetti permanenti. 
    D'altro canto, se la Corte costituzionale ha giudicato  legittimi
precedenti interventi di blocco  del  meccanismo  della  perequazione
delle  pensioni  quando  essi   avessero   una   durata   ragionevole
(sostanzialmente annuale), nel caso di  specie,  la  durata  biennale
dell'intervento, confermato per gli anni 2012-2013 - del pari oggetto
di  censura  nella  sentenza  n.   70/15   -   non   trova   adeguata
giustificazione e risulta ancor piu' gravosa, benche' detta  sentenza
avesse sottolineato l'ammissibilita' di interventi di riduzione della
rivalutazione  se   temporalmente   contenuti,   come   avvenuto   in
precedenza,  nel  termine  annuale.  Pertanto,  non  puo'   ritenersi
manifestamente infondata l'eccezione di  legittimita'  costituzionale
delle norme in esame con riferimento agli articoli 3, 36, 1° comma, e
38, 2° comma, Costituzione.